NIGHTGUIDE INTERVISTA FABRIZIO CAMMARATA

NIGHTGUIDE INTERVISTA FABRIZIO CAMMARATA

Torna in Italia Fabrizio Cammarata per un nuovo live il 4 aprile 2018 al Campo Teatrale di Milano: una data esclusiva dove il cantautore palermitano torna a ipnotizzare il pubblico con “Of Shadows”, il suo ultimo disco. Un album di luci e ombre, dove Fabrizio racconta intime storie d'amore e perdita attraverso la sua inconfondibile voce soul e una maestria chitarristica unica ed elegante. Un concerto inserito in un'intensa tournée che vede numerosissimi appuntamenti live in tutta Europa, negli USA e in Canada tra i quali spiccano le nove date americane a marzo al SXSW Festival 2018 di Austin.
Lo abbiamo intervistato.
 
Ciao Fabrizio, il 4 aprile 2018 suonerai al Campo Teatrale di Milano. Che tipo di live possiamo aspettarci?
Sarà una sorta di “recital”, come faccio ormai da anni, un momento intimo, in cui inviterò la gente a entrare nel mio mondo. Ho fatto un disco che parla di ombre. Delle “mie” ombre, ma che potrebbero somigliare a quelle di tante altre persone.  
Come è nato il tuo disco, “Of Shadows”'?
Dai viaggi, da amori potentissimi e disciolti, dalla bellezza che ho scoperto durante questi anni in cose insospettabili. La mia musica mi ha dato il privilegio di viaggiare in continuazione; e più i miei occhi si meravigliano per cose sempre nuove, più si abituano a guardare dentro, in profondità. Nelle mie ombre, appunto. Una mattina dello scorso anno mi sono svegliato e ho scoperto che tutto ciò che avevo scritto negli ultimi 6 anni era parte di un percorso. Avevo lavorato a un “concept album” senza esserne pienamente consapevole.
 
          

Di che genere di influenze risenti nelle tue composizioni?
Da ragazzino ascoltavo solo musica che veniva da USA e UK. È lì che ho trovato e riconosciuto quella che musicalmente è la mia lingua madre, l'inglese, la lingua che mi ricorda casa. Oggi il ventaglio dei miei ascolti è molto più ampio, negli ultimi anni è Chavela Vargas ad avermi guidato nella ricerca della mia vera voce, i Tinariwen mi hanno insegnato che una chitarra può essere silenziosa come un deserto, il flamenco ha aperto una sorta di via invisibile di cui non sospettavo neanche l'esistenza. Oggi provo sempre a evocare il “duende” e ad abbandonarmi a esso.
La tournee che toccherà Milano ad aprile vede concerti in tutta Europa, negli USA e in Canada: come ci sei arrivato?
Fin dall'inizio della mia carriera ho preso una decisione importantissima: non ci sarebbe mai stato un Paese, un territorio privilegiato nel mio percorso. Avrei rispettato questa sensazione perenne di non appartenere musicalmente a nessun luogo in particolare. Quindi il segreto è stato quello di dedicarmi sempre a ogni posto in cui ho portato la mia musica. Ho anche la fortuna di avere un manager, Christoph, senza il quale oggi non sarei stato in grado di fare nulla di tutto questo.



Il pubblico italiano e quello straniero sono molto diversi tra loro?
È interessante notare come ogni pubblico abbia delle sue peculiarità. Basta varcare un confine e scopri comportamenti anche leggermente diversi. Al pubblico italiano sono particolarmente affezionato, ovviamente. Per certi aspetti è quello più vicino, posso permettermi di raccontare un paio di cose in più durante i miei concerti.
Ti piace l'arte in genere, non solo la musica, vero?
Sì, coltivo una curiosità affamata per tutte le discipline, ma amo in particolare il cinema, la letteratura e la fotografia. Sono canali in cui so che posso esprimermi, a volte penso che non mi posso ritenere un “musicista”. Piuttosto qualcuno che ha bisogno di esprimersi, e che per farlo può rivolgersi a questo o a quell'altro mezzo. Così da anni lavoro a un road movie, “Send You A Song”, col regista Luca Lucchesi; l'anno scorso ho pubblicato un romanzo, “Un mondo raro”, scritto insieme ad Antonio Di Martino, e nel mio bagaglio a mano c'è sempre una Leica e tanti rullini.



Com'è stato scrivere con Dimartino?
Divertente, in primis perché è uno dei miei migliori amici. È stato bello vedere che una cosa nata per gioco acquisiva bellezza di giorno in giorno. Amo lavorare con i miei amici, lo faccio in continuazione.
E suonare con artisti come Ben Harper, Patti Smith, Daniel Johnston e Damien Rice?
Impagabile. Mi sono confrontato con gente che mi ha letteralmente “creato”, durante gli anni della mia formazione artistica. Soddisfazioni che ricorderò per sempre: Ben Harper che mi ringrazia abbracciandomi forte e Damien Rice che mi dice “quella canzone, “Myriam”... vorrei averla scritta io”. Ora, io non è che ci creda appieno a quelle sue parole, magari l'ha detto per essere gentile, ma la cosa bella di questi ultimi anni è che ormai tutti questi grandi artisti li considero come “colleghi”, gente che fa il mio stesso lavoro, solo molto più famosa.
Il brano di 'Of Shadows' cui sei più legato?
“Long Shadows”, da cui è nato tutto, una sera d'inverno dentro un hotel di Cordoba, in Spagna. La scrissi in una notte e la registrai il giorno seguente: quella che ascoltate nel disco è proprio quella registrazione: una canzone appena concepita, grondava del mio stesso sangue.
E i cinque brani/dischi del tuo cuore?
Difficilissimo, facciamo che ti dico i primi cinque che mi vengono in mente dei cinquanta che dovrei dirti:
-        “La Llorona”, un brano tradizionale messicano che faccio a tutti i miei concerti;
-        “Fly” di Nick Drake;
-        “Visions Of Johanna” di Bob Dylan;
-        “Giugno '73” di Fabrizio De André;
-        “Johnny B. Goode” di Chuck Berry.
 
Buon tour!
Grazie!


fabrizio cammarata, in shadows

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